Gerard Lutte
Giulio Girardi, compagno di strada, educatore e teorico dell’educativa dell’amicizia liberatrice
Compañeras y compañeros,
grazie per la vostra presenza a questa festa della memoria di Giulio
Girardi, che per molti di voi è stato compagno di strada con il quale si
condividevano sogni, ideali, lotte, conquiste e anche sconfitte.
La parola “compagna” o “compagno” è densa di significati, di storia, di
emozioni. Evoca tutte le persone che lungo la storia hanno dato la loro
vita per costruire una società giusta e fraterna, partecipando alle
lotte della classe contadina e operaia, dei partigiani e dei popoli
oppressi dall’imperialismo. Il “compagno” è anche la persona con la
quale si condivide il pane, e rimanda a Gesù, ai compagni di Emmaus,
alle prime comunità cristiane in cui la condivisione del pane in ricordo
di Gesù corrispondeva ad una condivisione dei beni. Erano comunità
comuniste.
Giulio era ‘compagno di strada’, non si è rinchiuso in un convento,
nell’ufficio di un professore universitario o nelle biblioteche. E’
uscito ed ha percorso le strade dell’Europa e del mondo. Non in jet
privati con sciame dei giornalisti e auto blindate, ma come Gesù a
piedi, come quando raggiungeva nel Chiapas in impervi sentieri di
montagna il luogo di un convegno internazionale. Come Paolo di Tarso
usava i mezzi di trasporto dei poveri che nel nostro tempo sono le
classi economiche dei treni o degli aerei. Chi non si ricorda di Giulio
con le sue valigie zeppe di libri o le borse con il computer e i
manoscritti che si trascinava dappertutto. ‘Strada’ evoca anche il
Movimento dei Giovani di Strada del Guatemala con i quali vivo e lavoro
e che Giulio conosceva, apprezzava ed aiutava.
Giulio è stato un umanista, un grande filosofo, un prestigioso teologo
della liberazione, un cultore di molte scienze umane, ma innanzitutto
era un educatore e anche un grande pedagogo.
In questo mio intervento che vorrei fosse un inno all’amicizia parlerò
di Giulio educatore che utilizza la pedagogia dell’amicizia liberatrice.
Non lo farò con un’analisi dei numerosi scritti di Giulio
sull’argomento. Si dovrà farlo, ma io non ho né gli occhi né il tempo
necessario per tale lavoro. Tenterò di ripercorrere con voi la vita di
Giulio per vedere come lui stesso si libera progressivamente e diventa
sempre più capace di amicizia. Utilizzerò i miei ricordi e il racconto
della storia che fece Giulio ad una mia studentessa, Monica D’Ettorre,
in quindici incontri nei mesi di marzo ed aprile del 2004.
Giulio è nato al Cairo nel 1926 da una madre libanese e da un padre
italiano, tutti e due di cultura francese. Egli passa i primi cinque
anni della sua vita a Parigi, poi si trasferisce con la madre e la
sorella a Beirut perché i genitori si separano. Per qualche anno la
madre rimane da un fratello a Beirut e Giulio a 6 anni, inizia a
frequentare la scuola italiana dei domenicani. Già parlava francese e
arabo e ora apprende anche l’italiano. La madre per essere autonoma si
trasferisce con i figli ad Alessandria d’Egitto dove apre un salone di
bellezza ma vive nella povertà ed è spesso ammalata. Ed è la ragione per
la quale iscrive Giulio, quando lui aveva 11 anni, all’internato della
scuola dei Salesiani.
A Giulio i limiti dell’internato in una scuola religiosa pesano ed
all’età di undici, dodici anni scrive le sue prime due opere, che
raccoglie in un libro-quaderno. Il primo, che intitola “Uscire dal
collegio”, è una protesta contro i limiti alla libertà nell’internato.
Il secondo, dal titolo “L’amore ai ragazzi”, è un dialogo immaginario
con educatori ai quali chiede, perché i bambini non possono amare,
perché l’amore è loro proibito. Il libro contiene anche due poesie
dedicate a due cugine delle quali si è innamorato.
Malgrado queste ribellioni Giulio apprezza il collegio perché è un
ottimo alunno e gli piace essere il primo. Non avendo altre figure di
riferimento in questo mondo ripiegato su se stesso, si identifica con
alcuni professori che ammira al punto che vuol diventare anche lui
professore e salesiano. I superiori ai quali ha confidato il suo
desiderio, gli dicono che è meglio andare via dall’Egitto, ambiente,
pericoloso per la sua vocazione. E gli offrono di rinchiudersi in un
aspirandato isolato in una campagna del Piemonte, perché anche le città
italiane mettono in pericolo le vocazioni religiose. Gli aspirandati
erano internati in cui si preparavano ragazzi, spesso provenienti da
famiglie povere, per diventare salesiani.
Nel 1939, all’età di tredici anni, Giulio lascia l’Egitto per andare in
Italia con una nave, la madre che ha lasciato Giulio partire perché si
sente ammalata e vuole assicurare il suo avvenire, lo accompagna con una
carrozza. L’ultimo ricordo che Giulio ha di lei è quando la vede
allontanarsi sventolando un fazzoletto bianco. Giulio sente il dolore di
separarsi dalla persona che più ama al mondo.
Nell’aspirandato le contraddizioni già vissute nel collegio si
acutizzano, una vita di totale isolamento dal mondo, in un’istituzione
totale, dove si incontrano solo maschi, non le ragazze tentatrici, nella
quale c’è un vero lavaggio del cervello, si coltivano i sensi di colpa e
si reprime duramente la sessualità, l’affettività, le amicizie, la
libertà, le relazioni con la propria famiglia e si esalta l’umiltà come
annientamento della propria personalità. Ma Giulio riesce a sopportare
questi limiti perché si dedica allo studio che gli piace molto. Già è
presente a questa giovane età una caratteristica di Giulio che
privilegia l’intellettualità, la cultura e tende a negligere la cura del
corpo, l’alimentazione. E’ apprezzato dai superiori e dai suoi compagni
per i suoi eccellenti risultati. E’ anche molto socievole, e forma
facilmente delle amicizie non ancora di totale reciprocità, perché lui
si crede superiore agli altri.
Era il tempo del fascismo che rinforzava ulteriormente l’autoritarismo
nell’aspirandato. Giulio è capo balilla. Ci divertiva recitando a
memoria il giuramento dei balilla di fedeltà al duce se necessario fino
alla morte e cantando canzoni fasciste. Un altro repertorio suo erano le
canzoni romantiche soprattutto francesi, degli anni trenta che penso,
piacevano alla madre. L’inizio degli anni’70 eravamo andati, Giulio, mio
fratello ed io ad un cinema a Parigi dove si proiettava un film con
molte canzoni e Giulio ad alta voce cantava con gli attori al punto che
per noi lo spettacolo si era trasferito nella sala.
Le contraddizioni e i sensi di colpa dell’aspirandato lo accompagnano
nel noviziato che fa all’età di quindici anni, e che si conclude con
l’emissione dei voti religiosi di povertà, castità ed ubbidienza.
Dopo il noviziato fa il liceo in un collegio salesiano, che finisce
all’età di diciotto anni. Nel 1944 inizia gli studi della filosofia. A
19 anni quando nel ’45 gli fanno sapere che la mamma è gravemente
ammalata e che i medici dicono che solo la presenza di Giulio, che era
il suo prediletto, poteva guarire, ottiene il permesso di andare in
Egitto e va a Roma per richiedere alle autorità inglesi un visto che non
gli fu concesso. E’ sempre a Roma quando riceve una lettera della
sorella che gli annuncia che la mamma è deceduta. E affranto dal dolore,
un salesiano che lui ammirava gli rimprovera questo dolore, dicendogli
che ora doveva solo occuparsi della congregazione e dimenticare la
famiglia. Giulio è profondamente ferito da queste osservazioni e inizia
a mettere in dubbio l’umanità di una vita religiosa che non permette di
adempiere il dovere di curare i propri genitori. Si sente in parte
colpevole per rimpiangere la morte della madre, però questo sarà un
punto di partenza di una riflessione che gli farà in seguito rimettere
in discussione la Chiesa cattolica e la sua morale repressiva. Questa
ferita, questo dolore per la scomparsa della madre e soprattutto per non
essere rimasto vicino a lei, lo accompagnerà fine alla fine della sua
vita. Non amerà mai una persona come ha amato la propria madre. Anche se
l’amore per Gesù sarà un’altra costante di tutta la sua vita. Gesù come
amico e non come superiore. Giulio supera parzialmente questo dolore
attraverso lo studio della filosofia nella quale realizza il suo
desiderio di incontrare la modernità, “non mi ritrovavo” dice lui “in
una visione filosofica chiusa scolastica e cominciavo a desiderare una
forma di dedizione agli studi filosofici che fosse in qualche modo un
momento di incontro con il mondo moderno, con la cultura moderna, con la
cultura urbana e non fosse accettata come una forma di cultura
monarchica... “
A 22 anni è nominato docente di storia di filosofia medioevale nella
facoltà del Pontificio Ateneo salesiano. Imposta una relazione di
amicizia e di dialogo con gli studenti e diventa il loro confidente.
Questo atteggiamento è contestato dal rettore dell’Università che lo
invita a comportarsi come superiore e non come compagno dei suoi
studenti. Giulio dice: “per me era più importante essere amico, loro
confidente, quindi avere nei loro confronti un rapporto molto
democratico”. Egli vuole che il suo insegnamento aiuti i suoi studenti a
crescere e a maturare e per questo inserisce la storia della filosofia
nella storia universale. Persiste nella sua impostazione malgrado le
osservazioni del suo superiore. Continua in questo modo il suo processo
di liberazione personale dalle imposizioni dall’alto.
Ciò che mi ha colpito in Giulio è il rigore con il quale preparava sia
le lezioni sia ogni conferenza o intervento. Consultava di continuo le
nuove pubblicazioni sull’argomento e scriveva ogni volta le lezioni
senza ripetersi mai. Lavorava per lunghe ore al giorno. Scriveva
dappertutto, utilizzava tutti i momenti per scrivere o leggere quando
stava in aereo o in treno, a volte non rendendosi conto che non scendeva
dove era aspettato per una conferenza e varie volte perse l’aereo perché
non aveva sentito l’annuncio di partenza. Voleva eccellere come
professore come aveva fatto da studente.
A 25 anni inizia teologia all’Università gregoriana di Roma. Aveva
chiesto di andare a Lione in Francia, dove l’insegnamento era fortemente
connesso con la vita del mondo e dove era possibile vivere e
sperimentare la teoria nella vita reale. Ma i superiori non accettano la
sua richiesta. Rimane deluso dell’insegnamento molto ortodosso
dell’Università gregoriana, non relazionato alla vita reale dei credenti
e non credenti.
Fu per lui un sollievo quando dopo il secondo anno di studi viene
richiamato a Torino per insegnare la metafisica il corso più importante
della filosofia scolastica. Allo stesso tempo finiva gli studi della
teologia nella facoltà del Pontificio Ateneo salesiano di Torino.
In questi anni di studio fonda con alcuni compagni un gruppo per
realizzare un progetto ispirato all’espressione del Vangelo: "Tutto
quello che avete fatto ai più piccoli dei miei fratelli, lo avete fatto
a me". Da allora Giulio concepisce la vita religiosa e sacerdotale come
un servizio di amicizia e amore per tutte le persone.
Nel 1955 è ordinato sacerdote, evento che vive con forte commozione.
Pensa a sua madre che non può condividere con lui la felicità di quel
giorno e conferma che vuole fare della sua vita “una forma di messaggio
d’amore, di testimonianza dell'amore di Dio nella storia”. “Questo è
rimasto in qualche modo un desiderio in tutta la mia vita anche se l'ho
attuato solo in parte, con debolezze... e tante…, ma la mia ambizione è
stata sempre quella”.
Sul retro dell’immagine che regalava alla sua famiglia e alle persone a
cui era legato aveva scritto: “Abbiamo creduto all'amore” e per lui
questo indicava che nella sua vita voleva avere una fiducia illimitata
nell’amore di Dio liberatore e nell’amore di Gesù.
Nel 1958 le facoltà di Filosofia, Diritto ecclesiastico e Pedagogia sono
trasferite nell’Istituto salesiano di via Marsala a Roma.
In quell’anno sono stato chiamato ad insegnare Psicologia dell’età
evolutiva, come si chiamava a quel tempo, nella facoltà di Pedagogia. E’
lì che comincia fin dalle prime settimane una profonda amicizia con
Giulio che durerà più di mezzo secolo, fino a quando la morte ci
separerà.
Negli anni ‘60 Giulio ha la prima crisi di depressione che ci fa capire
quanto era difficile e sofferto il suo cammino di liberazione.
Nell’intervista dice che non si ricorda bene di quel periodo, ma io l’ho
seguito e lo andavo a trovare ogni pomeriggio e mi è sembrato che questa
depressione che dopo Giulio descriverà come una specie di morte, di
perdita di fiducia in se stesso e negli altri, sia dovuta a motivi
esistenziali, al fatto che sente la sua umanità soffocata da regole
troppo rigide, che sente l’ostilità di alcuni colleghi che si ritengono
ortodossi. In queste caserme che sono case religiose di più di 100
persone non trova la comunità di vita e di amicizia che lui ha sempre
desiderato.
Giulio esce da questa crisi con le cure che ricevette in una casa di
riposo e soprattutto con l’amicizia di alcuni colleghi che venivano a
trovarlo regolarmente. Dopo alcune settimane riprende la vita normale
come se nulla fosse accaduto.
Gli eventi degli anni ’60 gli danno l’occasione desiderata di incontrare
pienamente il mondo moderno e di studiare un aspetto importante della
cultura moderna, l’ateismo.
All’epoca mi disse che questo studio corrispondeva anche al desiderio di
capire come suo padre, ateo convinto, godeva della vita ed era felice,
mentre gli avevano sempre detto negli anni di formazione che gli atei
erano tristi e infelici.
Dal ’62 al ’71 coordina l’elaborazione di un’enciclopedia sull’ateismo
con la collaborazione di molti studiosi europei, opera monumentale
pubblicata con il titolo: “l’Ateismo moderno”. Lo studio di questo
argomento permette a Giulio di studiare l’ateismo marxista, da lui
chiamato ‘ateismo militante’, per distinguerlo dall’ateismo edonista del
padre. Scopre nel marxismo e nella pratica di molti comunisti, valori e
modi di vivere conformi al Vangelo che spesso non incontra in uomini di
chiesa ed in molte persone che si dicono credenti. Questa scoperta
accelera notevolmente il processo di liberazione di Giulio. Si lega di
amicizia con alcuni comunisti come Lucio Lombardo Radice, ma non sarà
mai vicino al partito comunista in cui ritrova un dogmatismo,
un’ortodossia e pratiche autoritarie non dissimili da quelle della
chiesa istituzionale.
Nel 1966 Giulio pubblica “Marxismo e Cristianesimo”, libro tradotto in
molte lingue e che avrà un profondo influsso su decine di migliaia di
cristiani che vivevano un profondo disagio per la contraddizione tra la
fedeltà al Vangelo e l’obbedienza alla gerarchia o l’adesione a partiti
sedicenti cattolici. Più di trent’anni dopo la pubblicazione Giulio, che
nel frattempo aveva scritto decine di altri libri, mi diceva:
“tante persone mi dicono che hanno letto il mio libro del ’66, ma non
conoscono quelli posteriori”.
Nel 1962 inizia il concilio Vaticano II voluto da Papa Giovanni XXIII e
Giulio vi partecipa come esperto. Ha scritto interventi per vari vescovi
ed ha partecipato alla redazione della Gaudium et spes, uno dei
documenti più importanti del concilio. Incontra molti altri esperti
progressisti tra i quali un certo Josef Ratzinger. Dopo il concilio
Giulio fa anche parte nell’università salesiana di un gruppo di docenti,
chiamati “i manco 20” che elaborava documenti per rinnovamento
evangelico della congregazione e dell’università.
Di questo gruppo facevano parte anche Bruno Bellerate, Pepe Ramos
Regidor, Manolo Gutierrez ed un certo Tarciso Bertone. A questo gruppo
il superiore generale intimò l’ordine perentorio di non scrivere e non
diffondere più alcun documento.
Nel ’68-’69 Giulio è coinvolto molto profondamente nella
contestazione studentesca, si identifica con i giovani sessantottini.
Questa esperienza gli apre nuovi orizzonti, gli rivela un marxismo
alternativo, non più autoritario e gerarchico ma democratico e di base.
Gli fa capire che deve cambiare il suo modo di insegnare e come dice lui
:“capivo che non dovevo solo formare persone competenti ed oneste, ma
anche persone impegnate politicamente e capaci di analizzare la società,
di criticarla, di assumere un impegno politico molto preciso, dal punto
di vista etico e politico. Compresi che la mia vita non solo cristiana
ma anche di sacerdote doveva essere caratterizzata da un impegno
politico dal punto di vista degli esclusi, quello degli sfruttati.
Quella prospettiva doveva ormai orientare i miei studi”.
In quegli anni si interessa anche ai movimenti di base nel mondo operaio
e a Roma al movimento dei baraccati. E varie volte venne a Prato Rotondo
dove lavoravo con baraccati e studenti che volevano fare una scuola come
quella di Barbiana di Don Milani e dove lottavamo per conquistare una
casa e far rispettare tutti i diritti alla salute e all’educazione.
Nel 1969 Giulio ed io siamo espulsi dall’Ateneo salesiano. Non fu una
sorpresa per me ed altri amici come Ettore Masina, ma per Giulio sì. La
sera prima di ricevere questo ordine diceva a Germano Proverbio e a me
che fino a quando ci sarebbe stato il provinciale spagnolo
dell’università lui non temeva nessuna sanzione, al punto che fu
talmente sorpreso quando lo stesso provinciale gli annunciò la notizia
che rimase stupefatto e non riuscì a dire nemmeno una parola. Io ebbi
una reazione totalmente diversa e il superiore citò come esempio di buon
religioso Giulio che non aveva proferito nessuna parola di protesta.
Giulio ha vissuto molto male questa espulsione. Una volta che nei mesi
successivi ero andato a trovarlo a Parigi, dove ero stato ospitato in
una camera vicina alla sua, lo sentii gridare durante un incubo notturno
per questa espulsione. Ricevette la solidarietà di molti colleghi ed
amici e di gran parte dei salesiani di base.
Quelli di una provincia francese lo avevano eletto come loro
rappresentante in un capitolo generale o assemblea generale dei
salesiani del 1972. Giulio non fu capace di sopportare la freddezza dei
superiori e l’ostilità di alcuni confratelli e rinunciò a partecipare a
quell’assemblea. Ebbe una seconda crisi di depressione rapidamente
superata perché era coinvolto con i movimenti di base di quell’epoca ed
aveva molti amici che lo appoggiavano. Un’analisi di tipo freudiano lo
aiutò a superare in parte i sensi di colpa dai quali ebbe molte
difficoltà a separarsi totalmente. Però si sentiva ferito dall’abbandono
dei salesiani che riteneva amici e non si erano manifestati per
esprimergli la loro solidarietà.
Sempre nel 1969 è chiamato a tenere vari corsi nelle facoltà di Teologia
e Filosofia dell’Institut Catholique (Università Cattolica) di Parigi,
in particolare ‘Introduzione al Marxismo’.
Nel 1970 è chiamato a tenere corsi simili all’Istituto Superiore di
Pastorale, Lumen Vitae, di Bruxelles.
Nel 1972 Giulio fa un’esperienza determinante per la sua vita futura. E’
uno dei pochi europei ad essere invitato a Santiago del Cile
all’Incontro Continentale dei Cristiani per il Socialismo. L’Episcopato
cileno condanna duramente questo evento e qualche mese dopo Pinochet che
ha rovesciato con violenza il governo socialista di Allende,
perseguiterà questi cristiani. Giulio è profondamente amareggiato perché
durante il concilio aveva ottimi rapporti con il cardinale cileno Silva
Enriquez, anche lui annoverato tra i padri conciliari progressisti. Lo
stesso anno Giulio è invitato in Colombia, Ecuador e Cuba. In Colombia i
vescovi tentano di impedire che parli, però i salesiani colombiani
accolgono con affetto Giulio, come faranno anche i salesiani
ecuatoriani.
Nel 1973 è espulso dall’Institut Catholique e nel 1974 dall’Istituto
Superiore di Pastorale, Lumen Vitae. Queste decisioni sono prese
dall’alto e sospetto che ci sia lo zampino del Vaticano. Per Giulio sono
dolorose ma contribuiscono senz’altro alla sua liberazione manifestando
chiaramente che nelle università cattoliche sottoposte alla gerarchia c’
è solo una libertà condizionata di ricerca e di espressione.
In compenso nel 1975 è invitato dalla FLM di Torino, la federazione dei
lavoratori metalmeccanici e punta avanzata del movimento operaio, dalle
Acli, dalla GIOC (Gioventù Operaia Cristiana) e dalla chiesa Valdese a
condurre una ricerca sulla coscienza operaia. Parlando di questa
esperienza Giulio afferma che in quell’epoca era emersa una nuova figura
storica, quella del cristiano marxista. In uno dei primissimi incontri
un metalmeccanico gli disse: “ti espellono le università cattoliche, ma
il movimento operaio ti accoglie come il suo intellettuale organico”.
Per i più giovani spiego che “intellettuale organico” è un espressione
con la quale Gramsci designa gli intellettuali che con il loro
contributo favoriscono le lotte e l’organizzazione degli oppressi.
Giulio conduce la sua inchiesta con il metodo partecipativo con numerose
discussioni di gruppo di operai metalmeccanici, delle persone che vivono
una situazione di oppressione e di lotta. A Torino ci sono tre
collettivi di ricerca, due della FIAT e uno dei rappresentanti delle
piccole e medie imprese. Giulio utilizza un metodo qualitativo che dopo
sarà rivalutato da molti sociologi e da alcuni psicologi che hanno
constatato l’inutilità delle ricerche quantitative. Non considera i
partecipanti come ‘oggetti’ della ricerca, ma come ‘soggetti’ che fanno
la ricerca a partire dalla propria esperienza di vita.
I risultati di questa ricerca esemplare sono pubblicati nel 1980 nel
libro: “Coscienza operaia”. Giulio pensa che questo metodo deve essere
applicato anche nella ricerca teologica, dalla gente semplice e non da
esperti e tenta di farlo in Nicaragua. Anche lì Giulio è all’avanguardia
in quanto pensa che la scienza va elaborata dalle persone che vivono una
condizione di disagio e vogliono liberarsene.
Con lo stesso metodo condurrà una ricerca molto importante con giovani
delle comunità di San Benedetto al Porto di Genova fondata da Andrea
Gallo, anche lui ex salesiano. Questi giovani hanno fatto uso di droghe
e si sono poi organizzati in comunità autogestite. Non sono comunità
terapeutiche nelle quali i giovani sono considerati come malati non
capaci di prendere decisioni per la loro vita. Nelle comunità con cui
lavora Giulio sono i giovani che prendono responsabilmente le decisioni
per la loro vita, lottando anche contro una organizzazione sociale che
produce le tossicodipendenze. La ricerca fu pubblicata nel 1990 con il
titolo: “Dalla dipendenza alla pratica della libertà”.
In tutte le sue ricerche Giulio ha una relazione di amicizia con i
partecipanti e non si comporta come un professore che si crede a loro
superiore.
Ho consigliato i libri di Giulio ai miei studenti con i quali lui ha
condotto vari seminari sull’America Latina, perché sapeva entusiasmare
gli studenti e animarli a studiare con serietà. Moltissimi ricordano
ancora Giulio come un maestro di vita.
Nel 1977 i superiori salesiani lo espellono dalla congregazione e
automatica-mente Giulio è sospeso “a divinis”, ossia non può più
celebrare la messa e i sacramenti. Questa espulsione lo libera
definitivamente da un’istituzione che ha tentato di imprigionarlo e di
impedirgli di realizzare la sua vocazione umana ed evangelica, egli
afferma che è servita a fargli approfondire e maturare la sua fede come
scelta libera. Riflettendo sui quarant’anni di vita passati nelle case
salesiane Giulio constata con rammarico che non ha mai fatto
l’esperienza di una vera comunità unita dai legami di stima e di
amicizia per realizzare un progetto comune. Egli ricorda l’affermazione
di Voltaire, secondo il quale, i religiosi si uniscono senza conoscersi.
Vivono senza amarsi e muoiono senza rimpiangersi. Però, Giulio distingue
tra i superiori salesiani che l’hanno espulso e i molti confratelli che
in tutto il mondo gli hanno in quell’occasione manifestato solidarietà e
affetto.
Con Giulio e con Bruno Bellerate abbiamo parlato più volte di formare
una comunità in un quartiere popolare di Roma in cui avremmo realizzato
attività culturali, sociali e politiche. Dello stesso progetto abbiamo
anche parlato in seguito con Nora Habed e Mimmo Sarra. Non abbiamo
potuto realizzare questo sogno soprattutto perché non avevamo le risorse
necessarie per comprare una casa adatta a questo scopo e anche perché
eravamo sempre in giro per il mondo. Sempre per motivi economici, Giulio
non si poté trasferire come desiderava alla Magliana dove sarebbe stato
più facile incontrarci ogni giorno.
Dal 1978 al 1996 Giulio è stato professore di Filosofia politica
all’università di Sassari. La casta dei filosofi accademici non gli ha
mai concesso la nomina a professore ordinario, in particolare per
l’opposizione di certi docenti cattolici.
Il 1980 è un anno importantissimo per Giulio e segna l’inizio di un
periodo molto bello della sua vita. Un anno prima il popolo del
Nicaragua guidato dai Sandinisti, ha rovesciato la feroce dittatura dei
Somoza, rappresentanti dell’imperialismo statunitense in questo paese.
Questa rivoluzione concordava con le idee e le attese di Giulio e grande
fu la sua gioia quando ricevette l’invito a partecipare al primo
anniversario della campagna di alfabetizzazione realizzata da studenti
universitari e delle scuole secondarie che erano i protagonisti della
rivoluzione. Per molti di loro, cristiani, l’alfabetizzazione era un
modo di annunciare il Vangelo di liberazione di Gesù.
Giulio ricorda anche la visita nel 1983 di papa Wojtyla che invece di
incoraggiare i cristiani ad impegnarsi per la realizzazione dei progetti
di giustizia nel loro paese, fece rimproveri ai sacerdoti che
ricoprivano incarichi ministeriali. Durante una celebrazione di fronte
ad una moltitudine di gente venuta da tutte le regioni del paese, il
Papa invece di ascoltare la voce delle madri che gli chiedevano una
preghiera per i loro figli morti nella guerra scatenata dagli Stati
Uniti contro la rivoluzione, volle imporre il silenzio ad un popolo che
aveva conquistato il diritto alla parola. Il papa richiamò i cristiani
all’obbedienza ai vescovi che combattevano la rivoluzione sandinista.
Giulio dice che il papa polacco non si rendeva conto della differenza
tra la Polonia e il Nicaragua, dove erano proprio i cristiani gli
artefici della vittoria della rivoluzione. Così il Papa serviva gli
interessi dell’imperialismo statunitense nel paese. D’altronde, Wojtyla
combatteva duramente la teologia della liberazione e al posto dei
vescovi fedeli allo spirito del Concilio Vaticano II, nominava vescovi
reazionari. Giulio arriva così alla distinzione tra la chiesa gerarchica
e la chiesa popolare, formata da comunità di base in cui fratelli e
sorelle sono uniti dall’amore e protagonisti dell’annuncio del Vangelo,
dove non ci sono gerarchie e imposizioni dogmatiche.
Dal centro ecumenico Valdivieso fu invitato ad analizzare da un punto di
vista teologico la rivoluzione sandinista. Nei cristiani rivoluzionari
Giulio scopre la convergenza non solo del marxismo e del cristianesimo,
ma anche del sandinismo. E analizzerà questa sintesi tra le tre correnti
in un libro pubblicato nel 1986.
Dal 1980 fino al 2007 Giulio passerà ogni anno qualche mese in
Nicaragua. È lì quando nel 1990 i sandinisti sono sconfitti alle
elezioni e devono lasciare il posto a Violetta Chamorro del Partito
liberale, vicino agli Stati Uniti. È testimone della deriva di buona
parte dei comandanti che hanno in mano il partito del fronte sandinista,
che si identificano sempre più con gli interessi della borghesia. Giulio
reagisce e condanna questa involuzione nelle colonne del periodico “El
Nuevo Diario”.Inviterà pubblicamente Daniel Ortega a dimettersi da
deputato per rispondere in tribunale alle accuse formulate contro di lui
dalla figlia della sua compagna. Questo tradimento dei rivoluzionari
borghesi non scoraggia Giulio che continua a impegnarsi con la base
sandinista, perché da molto tempo lui sa che è la base, gli esclusi, che
possono cambiare la società e non i ricchi e i potenti.
Giulio fa parte di Unicaragua, organizzazione di solidarietà di
universitari italiani con le università del Nicaragua, associazione che
avevo fondato nel 1986 con colleghi dell’università La Sapienza di Roma,
tra cui Bruno Bellerate, Raul Mordenti, Ezio Ponzo. Nel 1990 Unicaragua
accetta la richiesta di Nora Habed di cercare finanziamenti per borse di
studio a sandinisti che avevano abbandonato i loro studi universitari
per impegnarsi nella rivoluzione. L’associazione ha potuto in questo
modo accompagnare più di 500 giovani universitari che avevano un impegno
sociale e politico nella loro comunità. Giulio partecipò attivamente a
questa associazione pagando ben dieci borse di studio. Egli non si è
arricchito e ha condiviso non solo la sua vita, il suo impegno culturale
e politico con gli oppressi, ma anche le poche risorse materiali che
possedeva. Non è mai stato proprietario di una casa.
Quando nel 1996 siamo entrati in conflitto con dirigenti sandinisti che
volevano utilizzare le borse di studio per rafforzare il loro potere,
Giulio ci ha suggerito di dare al centro Valdivieso la gestione di
questo progetto.
Le relazioni tra il Nicaragua e Cuba erano strette e questo facilitò
l’impegno di Giulio anche in questo paese, dove dal 1986 al 1997
collabora con il Dipartimento America, le chiese evangeliche, il centro
Martin Luther King, l'Accademia delle Scienze (centro di studi
socio-religiosi) e l’Istituto di filosofia. Durante il viaggio di papa
Wojtyla nell’isola, Giulio è stato invitato con il belga François
Houtart, il brasiliano Frei Betto e un sociologo dello stesso paese per
dare a Fidel Castro un’interpretazione dei discorsi tenuti dal Papa
durante la giornata. Giulio mi raccontò che dopo la partenza del Papa,
furono invitati a cena dal leader cubano che disse che Wojtyla era il
mal di testa degli Stati Uniti. Uno degli invitati gli rispose: “però è
un mal di testa che si cura con una semplice aspirina!” Tuttavia Giulio
criticava l’autoritarismo dello stato cubano. Mi aveva invitato a
svolgere una inchiesta sulla condizione dei giovani cubani. Gli risposi
che accettavo però a condizione di avere la libertà di intervistare chi
volevo e non solo i giovani indicati dal partito. Questa condizione non
fu accettata e Giulio approvò la mia decisione di non svolgere questa
inchiesta.
Negli stessi anni, Giulio svolge vari incontri in Messico e ricorda in
particolare quello con Samuel Ruiz, vescovo di San Bartolomé de Las
Casas che gli fa scoprire l’importanza del movimento indigeno con il
quale Giulio collaborerà soprattutto in Nicaragua, Ecuador, Bolivia. In
Nicaragua si impegna con l’università indigena URACCAN della Costa
Atlantica per la promozione della cultura indigena e incoraggia a
rivalutare la loro religione come componente essenziale della loro
cultura. Egli fa parte della campagna continentale “500 anni di
resistenza indigena nera e popolare”. Giulio non è settario e anche
quando non è d’accordo con l’ideologia e la pratica di una istituzione,
egli può collaborare con persone che stima e stringere con loro
relazioni di amicizia. Così tiene ottimi rapporti con vescovi, non solo
con Samuel Ruiz del Chiapas, ma anche con Sergio Méndez Arceo, anche lui
del Messico, e con Pedro Casaldàliga del Brasile.
Giulio è stato molto influenzato dal pensiero del vescovo Leonidas
Proaño, dell’Ecuador, eminente teologo della liberazione che ha lavorato
con gli indigeni nel loro impegno per liberarsi dall’oppressione che
subiscono da 500 anni. Non sono riuscito a verificare, se Giulio abbia
incontrato personalmente Proano. Nel 1998, a dieci anni della morte di
questo vescovo, Giulio partecipa ad un incontro nel luogo dove è stato
sepolto e svolge un seminario che pubblicherà poi, con la collaborazione
di Gianni Novelli, in un opuscolo dal titolo: "Seminando l’amore come il
mais. Leonidas Proaño, testimone e teologo dell’amicizia liberatrice”.
Abbiamo già visto che nella vita di Giulio l’amicizia assume
un’importanza vitale. Amicizia con Gesù e di conseguenza con tutte le
persone. Egli non può concepire una vera educazione che non sia fondata
sull’amicizia. Giulio scopre nell’autobiografia di Proaño il concetto
non solo di amicizia, ma anche di amicizia liberatrice. E questo gli
permette di esprimere meglio ciò che già pensa e lo spinge ad una
sistematizzazione della sua concezione dell’amicizia.
Dal 1994, Giulio seguiva con molto interesse il Movimento dei Giovani di
Strada del Guatemala che avevo formato con un gruppo di ragazze e
ragazzi di questo paese. Il nostro movimento autogestito favoriva il
protagonismo dei giovani e voleva difendere i loro diritti con la loro
partecipazione ad una trasformazione della società. Privilegiava
l’amicizia nel rapporto educativo e dava una importanza fondamentale
alla formazione di un pensiero autonomo e critico di ogni giovane.
Corrispondeva quindi alle idee di Giulio. Fu lui stesso a proporre di
svolgere un seminario sul tema dell’amicizia liberatrice con giovani e
lavoratori del Movimento. Era la prima volta che assistevo ad un
seminario di Giulio e ho constatato che sapeva organizzarlo molto bene,
partendo dall’esperienza di ogni giovane per fargli prendere coscienza
dell’importanza dell’amicizia nella propria liberazione. Grazie a questo
seminario abbiamo approfondito maggiormente il tema dell’amicizia che
abbiamo abbinato anche noi alla liberazione, come faceva Giulio. Le
ragazze e i ragazzi hanno partecipato all’elaborazione di un video dal
titolo: “Educazione è amicizia e libertà”.
Giulio era anche membro della rete di amicizia con le ragazze e i
ragazzi di strada, Amistrada, che abbiamo formato in Italia e in Belgio
per condividere con le ragazze i ragazzi del Guatemala il sogno e
l’impegno di una società più umana e fraterna. Giulio fece interventi
molto apprezzati nelle assemblee della nostra rete, nella quale vedeva i
valori che avevano ispirato tutta la sua vita, in particolare l’amicizia
e l’impegno per trasformare la società internazionale .
Il suo coinvolgimento con il movimento indigeno indurrà Giulio a
partecipare nel 2001 al primo Social Forum a Porto Alegre. Era un
incontro dei movimenti per la globalizzazione alternativa, per
coordinare le campagne mondiali, condividere e raffinare le strategie
organizzative, informarsi vicendevolmente sui diversi movimenti sparsi
per il mondo e sulle loro tematiche. Fino al 2004, Giulio parteciperà a
tutti questi incontri annuali del Movimento di Porto Alegre, come lui lo
chiamava. Questo lo aiuterà a sottolineare l’importanza di unire tutte
le realtà di base per combattere la globalizzazione neoliberista che
minaccia la sopravvivenza stessa dell’umanità e del nostro pianeta. Per
Giulio, il movimento “…è la più interessante espressione internazionale
di solidarietà e di alternativa alle forme dominanti di cultura, che
sono invece quelle che tendono a fare del mondo un terreno di dominio da
parte dei più forti, da parte dei più potenti su coloro che sono deboli,
su coloro che sono emarginati. A noi sembra che sia la migliore risposta
a questo tentativo di violenza verso tutti i settori emarginati, noi
stiamo invece cercando di cogliere questi settori e di comunicare loro
la coscienza che hanno un potere, ma non è un potere basato sulle armi,
basato sulle ricchezza, ma un potere basato sulle loro capacità di
amare, di donarsi, sulla loro capacità di costruire costantemente delle
alternative a questo tentativo di dominazione”.
Alla fine del 2004 Giulio è colpito da una grave depressione che durerà
vari mesi, molto più grave, delle due anteriori. Giulio si sente
emarginato ed inutile, ma più profondamente si sente colpevole per aver
ceduto a volte al desiderio di primeggiare e non all’amore
disinteressato e alla condivisione con gli esclusi. Durante tutta la sua
vita, egli ha lottato per far prevalere l’amore sull’egoismo. Ma in
questa fase molto dolorosa della sua vita è assalito da dubbi e sensi di
colpa che lo tormentano al punto che si chiede se sarà salvato. Gli è
stato molto duro uscire da questa depressione - come dice lui - e
attribuisce la sua guarigione alle cure mediche, e soprattutto
all’amicizia delle persone che andavano a trovarlo frequentemente.
Questa depressione aiuta Giulio a crescere umanamente e spiritualmente,
ad approfondire l’amicizia come rapporto di parità e di condivisione.
Scopre un’altra categoria di persone che subiscono la maggiore
esclusione perché sono depresse, tagliate fuori dalle relazioni con la
società e con gli altri, e scopre che la depressione che colpisce
milioni di persone si estende rapidamente per l’oppressione del sistema
globale al servizio del profitto che umilia la dignità di tante persone,
le loro possibilità di avere un lavoro che gli permetta una vita umana e
la realizzazione dei propri sogni. Giulio vorrebbe che la sua
testimonianza sia un segno di speranza per tutte queste persone e,
implicitamente, ci invita tutti ad una maggiore solidarietà con quelle
persone vittime dell’oppressione globale.
Un altro progresso significativo è che si rende conto dell’errore, le
cui origini risalgono alla vita nell’aspirandato, di aver preso in
considerazione solo l’intelligenza, lo spirito e non il corpo. Non si è
preso sufficientemente cura di se stesso, mangiava ciò che gli capitava
perché non dava importanza agli aspetti materiali dell’esistenza, come
se il corpo, l’intelligenza, la cultura, la spiritualità, non fossero un
tutt’uno.
Giulio, che al momento delle interviste frequentava ancora il day
hospital, fa una dichiarazione sorprendente dicendo che questo è il
periodo più felice della sua vita. Pensa che si sia finalmente liberato
dai sensi di colpa e raggiunta la pienezza della maturità umana e
spirituale che gli permette di realizzare la sua vocazione di testimone
dell’amore liberatore di Dio e di Gesù per gli uomini nella storia di
oggi. D’ora in avanti concepisce l’amicizia come rapporto di parità
assoluta e di condivisione e vuole condividere la sua vita soprattutto
con gli indigeni che ha conosciuto in vari paesi dell’America Latina e
con le ragazze e i ragazzi del movimento dei giovani di strada del
Guatemala.
Dopo la depressione Giulio ha in cantiere vari progetti: finire il libro
sul Che Guevara nel quale intende “approfondire le motivazioni di fondo
del Che, quelle che spiegano la sua capacità di dedicare la vita
completamente agli altri… alla lotta contro /'imperialismo che è la
forma di emarginazione più dolorosa, più profonda ...”; vuole anche
scrivere un libro con il titolo: “Il movimento sovversivo di Gesù nella
società capitalista”; non dice la chiesa o le chiese di Gesù. Per lui
tutte le religioni e anche l’umanesimo ateo sono ugualmente validi
quando sono al servizio dell’umanità. Nella parabola del giudizio ultimo
Gesù dice che tutto ciò che è stato fatto per il più piccolo dei suoi
fratelli è fatto a lui stesso. Anche se chi l’ha fatto non lo conosceva;
un terzo progetto è quello di scrivere un libro sulla pace considerata
come “la capacità di far valere delle motivazioni … e dei valori,…
quelle esperienze che danno un senso alla vita e che dovrebbero
contribuire a dare ancora un senso a questa società”.
Giulio ha studiato Gandhi che ammira molto e si è interessato al
buddismo e alla meditazione trascendentale. Anche lui è convinto che non
si risponde alla violenza del capitalismo con un’altra violenza, ma con
un pacifismo attivo riempito da queste esperienze che danno un senso
all’esistenza, particolarmente per tutti quelli che sono emarginati e si
sentono inutili nella società capitalistica.
La depressione dolorosa che ha vissuto e l’analisi lucida che ha
realizzato lo inducono a cercare come una alternativa che dà un senso
alla sua vita, la ricerca della condivisone dell’amore con i popoli
indigeni e con le ragazze e i ragazzi di strada del Guatemala. Questa
condivisione si può esprimere come esperienza di amicizia liberatrice
“che realizza gli altri come soggetti, quindi che non è vissuta come una
forma di risposta al problema semplicemente della povertà, ma che è
nello stesso tempo di valorizzare in positivo le risorse che ci sono in
queste persone, che ci sono nei popoli indigeni, che ci sono nei ragazzi
e ragazze di strada. Gli orizzonti che si sono aperti, che si sono
precisati nella mia ricerca che intendo vivere come un progetto centrale
di vita, di amore e di speranza per me .... Credo di averti detto
l’essenziale di questo periodo che è fondamentalmente un periodo di
grande ricchezza, di grande soddisfazione, un periodo che è quasi una
forma di resurrezione. Per il superamento di quell'esperienza di
emarginazione che credevo di vivere, il superamento di morte, di
abbandono delle esperienze terrene, perché in questo momento tutte
quelle esperienze negative si stanno rovesciando e diventando uno
stimolo profondo a vivere, uno stimolo profondo a sperare, uno stimolo
profondo ad amare...”.
Giulio realizzerà solo il primo progetto, quello di finire il libro sul
Che che sarà pubblicato nel 2005 e che presenterà in varie città
d’Italia.
Il 26 maggio del 2006 dopo un intervento in un convegno internazionale
sull’America Latina a Roma, Giulio è colpito da un ictus leggero di cui
non si rende nemmeno conto. Claudio e Ornella Giambelli, amici fedeli
che lo accompagnano, si rendono conto della gravità dell’accaduto e
portano Giulio ad un pronto soccorso dell’ospedale più vicino. Lì è
colpito da attacchi più gravi e rimane semi-paralizzato. Le cure
riabilitative non migliorano la sua condizione e Giulio accetta la
proposta di Bruno e Marina Bellerate di andare a vivere nella loro
abitazione nei Castelli Romani. La lontananza impedirà a molte persone
di andare a trovarlo frequentemente. E malgrado le premure di Bruno e
Marina e dei loro figli, inizia per Giulio un lungo periodo di
solitudine e penso anche di depressione. In questa lunga notte buia e
fredda c’è qualche raggio di sole. La presenza di Maria, una giovane
donna rumena che lo assiste con disinteresse e amore, le visite di
Bruno, di tanto in tanto, la presenza di amici fedeli, di ragazze di
strada. Vorrei ringraziare e ricordare in particolare Claudio Giambelli
per la sua fedeltà, Aldo Zanchetta, Benito Fernandez dalla Bolivia e
Uriel Molina dal Nicaragua e tutti quelli che di tanto in tanto sono
andati a trovarlo. Giulio rimane lucido, ha informazioni dalla
televisione, ma si sente prigioniero del corpo che non gli obbedisce
più. Soffre di non poter fare più nulla e sogna di realizzare progetti,
nella sua condizione totalmente irrealistici. Si rifugia sempre di più
in un mutismo ostinato e rifiuta sempre di più di mangiare. In dicembre
dell’anno scorso, si pensa che la fine è vicina. Nei primi giorni di
febbraio sorprende tutti perché comincia a parlare e a mangiare. E’
un’altra resurrezione.
Avvisato da una lettera elettronica di Nora di quanto accade, dal
Guatemala telefono immediatamente a Giulio. Gli dò notizie delle ragazze
e dei ragazzi di strada, gli comunico che una ragazza che ha conosciuto
e appoggiato, e sua figlia della quale è il padrino e che entrerà il
prossimo anno all’università, verranno a visitarlo nel novembre
prossimo. Lui si rallegra molto della notizia. Gli chiedo allora cosa
vorrebbe dire alle ragazze e ai ragazzi di strada e mi risponde: “Devono
credere alla resurrezione”.
Dobbiamo credere alla resurrezione. Quest’ultimo messaggio di Giulio
vale anche per noi tutti, compagne e compagni. Non siamo riuniti qui per
piangere un morto, ma per dare continuità al sogno di Giulio di
contribuire a creare una terra nuova e cieli nuovi.
Oggi il potere della morte si estende su tutto il nostro pianeta. E’ il
potere della globalizzazione neoliberista, della finanza speculativa
internazionale, delle multinazionali che continuano a saccheggiare i
paesi del terzo mondo, degli Stati Uniti e dei paesi ricchi e della
maggior parte dei governi sottoposti al potere economico. Non bisogna
andare in America Latina o in Africa per constatarlo. Anche qui possiamo
vedere i disastri che provoca. La disoccupazione in aumento che colpisce
soprattutto le donne e i giovani, la precarietà del lavoro per milioni
di persone che non hanno i mezzi necessari per una vita decente, le
pensioni infami dopo lunghi anni di lavoro. Lo sfruttamento degli
immigrati, la distruzione dei diritti duramente conquistati dai
lavoratori con lotta e sangue, l’annientamento dello stato sociale. Ma
il sistema dominante non causa solo miseria materiale, distrugge anche
l’umanità nell’uomo. Provoca depressione in milioni di persone,
favorisce l’individualismo, il razzismo, il risorgere di movimenti
nazisti che nel ’45 credevamo per sempre sepolti. Giulio ha analizzato
come il dominio imperialista è anche colonizzazione delle menti e delle
coscienze. Distrugge i legami di solidarietà che sono la base di una
vita civile. Attraverso la scuola, i mezzi di comunicazione di massa
come la televisione, il consumismo, le droghe, il tifo e gli spettacoli
dell’industria dello sport, la moda, le invenzioni tecnologiche, fa
apparire necessari i duri sacrifici imposti alla maggioranza delle
persone. Domina una cultura del vuoto, dell’apparenza, dietro alla quale
c’è il non senso e la disperazione.
Il sistema dominante sta distruggendo anche il pianeta, inquina la
terra, l’acqua e l’atmosfera.
Per difendere il loro dominio i padroni del mondo ricorrono anche alla
guerra, devastano paesi per i loro interessi come fecero gli Stati Uniti
per distruggere la rivoluzione sandinista in Nicaragua e il movimento
popolare indigeno in Guatemala e in molti altri paesi dell’America
Latina. Devastano paesi come Iraq e l’Afganisthan, precipitandoli nel
caos per controllare le risorse petrolifere.
È urgente una riscossa, non aspettiamo la venticinquesima ora quando non
si potrà più reagire per nulla. Per cambiare il senso della storia
Giulio ci dà preziose indicazioni su chi lo può fare e su come
prepararla. Per lui sono gli esclusi, gli emarginati, gli ultimi che
hanno la forza, che hanno la possibilità di realizzare un’inversione di
rotta della storia. E qui parla di movimenti, movimenti degli studenti e
della classe operaia negli anni ’70, movimento dei giovani sandinisti,
degli indigeni del Chiapas e di tutta l’America Latina, movimento delle
ragazze e dei ragazzi di strada, movimento dei cristiani per il
socialismo, movimento di Porto Alegre e anche il movimento di Gesù.
Nel lungo racconto della sua vita, non cita mai un partito, anche se si
è avvicinato maggiormente ai partiti che sono alla sinistra della
sinistra però senza identificarsi con loro. Egli cita invece la
Federazione dei Metalmeccanici di Torino negli anni ’70, la Chiesa
Valdese, la GIOC e le Acli di quei tempi. Giulio è utopista ma non
ingenuo, sa benissimo che non basta essere escluso per poter contribuire
a un cambio di società, ma che è necessario che gli esclusi siano
coscientizzati e si organizzino alla base. Giulio vede che il
cambiamento è possibile se le organizzazioni locali dove le persone
unite da amicizia decidono tutto insieme nella loro lotta per il diritto
degli esclusi , si uniscono a livello mondiale come hanno iniziato a
fare a Porto Alegre. Non a caso Giulio parla del movimento di Porto
Alegre.
Egli non preconizza una lotta armata contro il sistema globale, ma una
resistenza e un cambiamento pacifico, basato sull’amicizia e sull’amore,
sui valori alternativi di condivisione. Parla di un metodo educativo
basato sull’amicizia liberatrice che per lui è condivisione d’amore.
Nella sua vita così densa Giulio ha realizzato il sogno che si era
formato durante l’adolescenza, di essere educatore e di annunciare la
buona notizia dell’amore e della liberazione che aveva annunciato Gesù,
l’amico della sua vita.